Al tempo delle (giuste e necessarie) restrizioni delle nostre libertà personali, in una delle fasi storiche più ardue dal secondo dopoguerra ad oggi, l’eredità storico-culturale del 25 Aprile si rivela più viva e tangibile che mai. La liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista così come dal regime fascista, le lettere d’addio e, ancora, il sangue versato di quegli anni appartengono indissolubilmente al patrimonio collettivo della Nazione.

Alla stessa stregua delle immagini, delle parole e degli interminabili silenzi promanatisi dal Vaticano nelle settimane precedenti, l’apparente solitudine di quell’uomo che si accinge a raggiungere il sacello del Milite Ignoto incastonato nel monumento del Vittoriano – o, più semplicemente, Altare della Patria – è destinata a segnare indelebilmente le nostre memorie, le nostre coscienze, le nostre vite. Un (altro) evento eccezionale, in una fase storica eccezionale. D’altronde è ormai pacifico: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, giurista ed accademico siciliano, ci ha da tempo abituati alle sue doti di statista tra gli inavveduti.
Chi ricorda il 25 Aprile celebra la nostra storia, la nostra cultura, la nostra Costituzione, la nostra coscienza, la nostra libertà. Chi ricorda il 25 Aprile celebra la Resistenza e rende onore ai Caduti. Chi ricorda il 25 Aprile celebra l’Italia tutta e canta Bella Ciao.

Chi invece dice o scrive le castronerie più mastodontiche, minimizza il valore statuale di questa ricorrenza e riduce il tutto a fascisti contro comunisti merita la nostra condanna morale e penale, ma soprattutto la nostra compassione. Perché in fondo i Partigiani, insieme con le milizie angloamericane e russe, hanno vinto anche per loro. Benché non se ne rendano conto.
«[…] la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai».
(Piero Calamandrei)

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